Secondo i dati del Centro Europeo per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie ci sarebbero oltre 80.000 casi accertati di infezione da parte del nuovo coronavirus.
Position Paper della Società Italiana di Medicina Ambientale e della Cattedra Unesco “Educazione alla salute e sviluppo sostenibile”.
25 Febbraio 2020
Stando ai dati attualmente disponibili e diramati come ufficiali dal Centro Europeo per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (ECDC) ci sarebbero oltre 80.000 casi accertati di infezione da parte del nuovo coronavirus segnalato per la prima volta dalle autorità cinesi all’OMS il 31 dicembre del 2019, con poco meno di 3.000 decessi correlati (https://www.ecdc.europa.eu/en/novel-coronavirus-china).
La fotografia del graduale espandersi dell’epidemia ci viene fornita dallo studio epidemiologico pubblicato il 17 febbraio scorso sul Chinese Journal of Epidemiology (http://weekly.chinacdc.cn/en/article/id/e53946e2-c6c4-41e9-9a9b-fea8db1a8f51) che conferma il dato di mortalità nettamente più bassa di questa nuova infezione (stabile al 2-3% per cento come previsto nei modelli elaborati a inizio anno dai ricercatori dell’Imperial College di Londra) rispetto alla SARS del 2002-2003, che con quasi 8.000 casi e circa 800 decessi arrivò a sfiorare il 10% di mortalità (ma giova ricordare che le polmoniti virali ricoverate annualmente negli ospedali italiani hanno un tasso di mortalità ricompreso tra il 5% e 10%). Sempre secondo i modelli elaborati dall’Imperial College di Londra, i soggetti sintomatici che entrano in contatto coi servizi sanitari e per i quali si formula quindi una diagnosi con positività dei test sarebbero solo il 10% del totale dei contagiati, per cui in Cina il virus avrebbe già infettato almeno 800.000 persone, che nel 90% dei casi risultano però asintomatici o affetti da lieve sintomatologia per cui resteranno senza diagnosi specifica. Se quindi la mortalità viene conteggiata sul totale dei contagiati anziché sul numero complessivo delle diagnosi effettuate, il tasso scende allo 0,3%. Non siamo quindi davanti a minacce drammatiche come ad esempio il virus Ebola che ha una mortalità pari anche al 70% e per il quale è stata dichiarata l’emergenza sanitaria internazionale dall’OMS nello stesso giorno in cui tale decisione è stata presa anche per il nuovo coronavirus. A tal proposito, è opportuno rammentare che tra i criteri su cui l’OMS basa la dichiarazione di emergenza internazionale (International health regulations) al momento della segnalazione di un nuovo virus manca uno specifico “criterio della gravità” (presumibile) dell’infezione, tanto che tale classificazione è in fase di revisione; ciò anche perché al momento dell’insorgere di una nuova virosi non si può conoscere preventivamente quali conseguenze determinerà la circolazione del virus all’interno della popolazione. Tale dato è invece oggi disponibile e in via di consolidamento stante l’ampia fetta di popolazione interessata dall’infezione nella provincia di Hubei in Cina.
L’espressione della malattia e la gravità sembrano attualmente correlate allo stato di reattività immunitaria dell’ospite, rendendo gli anziani e le persone con immunodeficienze primitive o secondarie quelle maggiormente a rischio e richiedenti tutela. Nella maggioranza dei casi, il virus darebbe luogo a sintomi lievi-moderati, caratteristica che favorisce la possibilità di diffusione per contagio da parte dei soggetti sintomatici, ma ignari del fatto di essere veicoli di infezione. La possibilità di trasmissione aumenta ulteriormente se si considera che anche i soggetti asintomatici possono veicolare il virus. È per questo che gli ambienti chiusi (indoor) rappresentano un potenziale luogo di facilitazione della trasmissione del coronavirus. Il fatto che si tratti di un “nuovo” virus, cioè sconosciuto al sistema immunitario dell’uomo, fa sì che non sia presente alcuna memoria immunologica nella popolazione, per cui chiunque è potenzialmente suscettibile di malattia e veicolo di infezione. Ciò che differenzia questa nuova virosi dal quadro di decorso dell’influenza stagionale è invece il maggior numero di soggetti che richiedono cure intensive tra coloro che sviluppano i sintomi della malattia in maniera seria fino a richiedere ricovero ospedaliero cioè circa il 20% dei sintomatici (laddove si rammenta che i sintomi compaiono solo in 1 contagiato su 10). Ciò pone indubbiamente dei problemi di organizzazione sanitaria e disponibilità di posti letto ospedalieri, con particolare riferimento ai reparti di malattie infettive e terapie intensive esclusivamente dedicate.
Queste osservazioni, ed in particolare la bassa mortalità dovrebbe aiutarci a fare chiarezza sulla PERCEZIONE DEL RISCHIO ed evitare di farci prendere dal panico. Per spiegarci meglio, dobbiamo distinguere tra un BASSO rischio INDIVIDUALE per cui anche in caso di infezione soltanto i soggetti più debilitati potrebbero correre davvero seri rischi, a cui fa da contraltare un più rilevante rischio per la salute pubblica a livello di popolazione perché anche una mortalità dello 0,2% sull’intera popolazione o del 2% tra i soggetti con diagnosi confermata comporterebbe tantissimi decessi nella popolazione generale. È proprio questo il motivo per cui la Cina, così come nei primi focolai epidemici italiani, si stanno adottando misure di contenimento tanto eccezionali per ridurre e ritardare la diffusione del virus in attesa che la ricerca scientifica riesca a fornire risposte che molto probabilmente saranno rapide, oltre all’attesa possibilità di riduzione del contagio virale nel periodo estivo.
Se queste considerazioni possono contribuire ad un maggiore equilibrio nelle scelte e nei comportamenti della popolazione nei prossimi giorni, d’altra parte la comunità scientifica e le istituzioni hanno il dovere di riflettere seriamente sulle criticità emerse in occasione dell’attuale epidemia da coronavirus, per non trovarsi impreparati in futuro.
Alcune precisazioni di carattere più strettamente scientifico sono d’obbligo per chiarire che cosa differenzi il 2019-nCoV dai comuni virus influenzali ovvero “che differenza c’è tra un virus influenzale come l’H1N1 o l’H3N2 che circolano il primo in buona sostanza dal 1918, il secondo dal 1968 e virus ricombinanti emergenti da pochi mesi o anni da serbatoi animali naturali o artificiali come i vari H5N1, H9N2, H7N7 degli allarmi aviari degli ultimi vent’anni (1997/2005) e i coronavirus 2002/2003 e 2019/2020”. È necessario sottolineare che mentre nei confronti di virus che circolano da anni/decenni i sistemi immuno-competenti umani sono in grado di rispondere in modo efficace e adeguato, contro i nuovi virus – cioè contro virus che hanno fatto da poco il cosiddetto “salto di specie” – i nostri sistemi immunocompetenti tendono a reagire in modo pericoloso, sia per eccesso, sia per difetto. Un esempio del primo caso, cioè di una iper-reazione, sono la cosiddetta “tempesta di citochine” e le “polmoniti emorragiche” da drammatica risposta immuno-infiammatoria tipica dei casi di aviaria (1997/2005)o dei virus emorragici come Ebola o Marburg. Ovviamente come casi di risposta insufficiente basta pensare alla frequente morte da polmonite meta-influenzale di persone immunodepresse o anziani.
Un fattore fondamentale da sottolineare è la contagiosità dell’attuale coronavirus. Bisogna ricordare infatti che i virus non sono microrganismi in senso stretto, ma “acidi nucleici impacchettati” che vivono trasferendosi nell’ambito della biosfera in genere in equilibrio simbiotico con delle specie-serbatoio (ad esempio gli uccelli migratori per i virus influenzali) e che – in genere – per situazioni di particolare stress/pressione ambientale, possono fare il “salto di specie” invadendo altre specie animali i cui sistemi immunocompetenti inevitabilmente faticano a raggiungere un equilibrio (tolleranza) con essi. Quello che è avvenuto a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso è che molti virus animali sono passati dal loro serbatoio animale/naturale all’uomo: gran parte delle malattie acute emergenti sono infatti zoonosi. In questo caso è sufficiente accennare al SIV/HIV e ad altri retrovirus e soprattutto ai tanti sottogruppi di orthomyxovirus influenzali (H5N1, H5N2, H5N3, H7N1, H7N7, H9N2..) che sono passati dai volatili (sia migratori, sia stanziali in allevamenti e mercati) all’uomo in genere a causa delle condizioni di “pressioni” non naturali. Ed è estremamente importante sottolineare che se questi virus non sono, almeno fino a oggi, diventati pandemici, è essenzialmente perché, per nostra fortuna, non hanno acquisito le mutazioni chiave, in particolare nel gene codificante per la proteina in grado di agganciarsi ai recettori delle vie aeree superiori umane (HA – emoagglutinina). È per questo motivo che H5N1 e gli altri influenzali ricombinanti hanno fin qui determinato solo casi sporadici e gravi – caratterizzati da polmoniti emorragiche e shock sistemici – soltanto in soggetti direttamente esposti a grandi cariche virali per motivi professionali. È al contempo importante sottolineare che non ha alcun senso affermare, come purtroppo molti hanno ripetuto anche in questi giorni, che si è trattato di allarmi infondati o addirittura strumentali, magari finalizzati alla vendita di farmaci e vaccini (sic). Una caratteristica tipica di questo tipo di agenti patogeni è infatti che in un primo momento si assiste ad un adattamento molecolare parziale/progressivo alla nuova specie, seguito da un adattamento migliore (che paradossalmente rappresenta il momento di maggior pericolo): solo così infatti, adattandosi ai recettori delle vie respiratorie, il nuovo virus può con facilità penetrare e diffondersi all’interno dell’organismo ospite: è quello che accadde nel caso della grande Pandemia Spagnola di inizio ‘900 allorquando ad un primo periodo di mortalità significativa ma non drammatica, fece seguito dopo alcuni mesi il vero e proprio picco.
A questo punto dobbiamo ricordare che le principali pandemie virali del secolo scorso sono state:
- la cosiddetta Spagnola (da H1N1/1918 1920), quella di gran lunga più drammatica con 50-100 milioni di morti stimati (e una letalità maggiore del 2,5%) che fece un numero di morti 5/10 volte più della “grande guerra” mondiale che l’aveva preceduta (e almeno in parte co-determinata);
- la cosiddetta asiatica (da H2N2/1952) che avrebbe causato circa 1-2 milioni di decessi;
- la cosiddetta Hong Kong (da H3N2/1968), probabilmente di dimensioni minori.
E possiamo sottolineare come l’H1N1 sia rimasto, da un secolo a questa parte (pur con un mai ben chiarito periodo di eclissi tra 1957 e 1977 e continue mutazioni che ne hanno mantenuto la patogenicità), presente tra noi, mentre l’H2N2 è stato sostituito dall’H3N2 che è l’altro Ortomyxovirus tuttora presente.
È grazie a questa grande capacità di trasformazione sia genetica, sia antigienica, che i virus influenzali continuano a rimanere patogeni pericolosi mietendo ogni anno centinaia di migliaia di morti, generalmente tra le persone più fragili. Ed è anche noto come alcune ondate epidemiche dovute a sottotipi aggressivi avrebbero fatto in alcune annate probabilmente più vittime che quella del 1968. Rimane il fatto che da decenni ci si aspetta una nuova pandemia e a questo proposito possiamo sottolineare che anche quanto successo nel 2009 richiede un chiarimento: il famoso triplice ricombinante della discussa pandemia messicana circolava infatti già da almeno due anni ed era essenzialmente un ricombinante del solito H1N1 del 1918, che avrebbe fatto un discreto numero di vittime pur essendosi trattato di una pandemia che si è autolimitata.
Per quanto concerne infine il Coronavirus della SARS 2002/2003, si trattò probabilmente di un virus ricombinante piuttosto instabile, forse emerso da deprecabili sperimentazioni in ambito veterinario (ancora una volta in Cina), che diventò rapidamente contagioso, ma fece tutto sommato poche vittime: probabilmente un migliaio, essenzialmente tra Cina e Canada, colpendo soprattutto il personale medico e paramedico (rischio gravissimo che dovremmo assolutamente cercare di scongiurare anche oggi e in futuro, in una situazione in cui si sta diffondendo nel mondo un virus abbastanza simile).
Con queste semplici, forse semplicistiche, ma necessarie premesse, possiamo capire quanto sia sbagliato paragonare ai “comuni virus influenzali” l’attuale coronavirus che deve essere definito un “pandemico potenziale” perché in grado di determinare sia polmoniti gravi iper-reattive, sia di uccidere persone immunodepresse, sia di diffondere orizzontalmente da uomo a uomo e che è oltretutto caratterizzato da due ulteriori fattori di rischio: il lungo periodo di incubazione (fino a due o anche tre settimane secondo alcune osservazioni in Cina) che ne rendere praticamente difficilissimo il confinamento, per via del possibile stato di portatore sano dei contagiati asintomatici, lievemente sintomatici o non ancora sintomatici.
Tutto ciò premesso, si conclude che:
– la priorità assoluta e urgente è quella di salvare il sistema sanitario e salvaguardare il personale medico e paramedico, evitando che l’assalto agli ospedali e soprattutto ai servizi di pronto soccorso (che deriverebbe dal panico dovuto a un numero significativo di decessi) ne faccia i luoghi più pericolosi (in particolare per il personale stesso) e di maggior diffusione della pandemia stessa;
– l’unica strategia (lo ripetiamo, necessaria e urgentissima) è, a questo punto, la realizzazione di corridoi preferenziali in cui poter canalizzare l’eventuale afflusso di migliaia di casi o supposti tali nei prossimi giorni o mesi. A tal fine si propone di attrezzare rapidamente gli ospedali militari delle grandi città (attualmente quasi inutilizzati) in modo tale da trasformarli in breve tempo in centri di diagnosi, isolamento, e smistamento per i casi necessitanti terapia intensiva.
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