Il Prof. Gioacchino Tedeschi, Presidente della Società Italiana di Neurologia, commenta lo studio pubblicato sul New England Journal of Medicine che fornisce “buone e cattive notizie” sulle potenziali conseguenze a lungo termine del giocare a calcio a livello professionale.
Roma, 23 Ottobre 2019
È stato appena pubblicato sul New England Journal of Medicine uno studio epidemiologico retrospettivo condotto da Mackay e colleghi su 7676 ex calciatori scozzesi professionisti, identificati in un database, che fornisce “buone e cattive notizie” sulle potenziali conseguenze a lungo termine del giocare a calcio a livello professionale. In confronto alla popolazione generale, gli ex calciatori scozzesi presentavano una mortalità più bassa per le malattie neurologiche e non neurologiche comuni (ictus cerebrale e tumori del polmone) – la buona notizia – ma risultavano più elevate la mortalità per malattie neurodegenative e la prescrizione di farmaci per la demenza (la cattiva notizia).
“In particolare – ha commentato il Prof. Gioacchino Tedeschi, Presidente della Società Italiana di Neurologia e Direttore I Clinica Neurologica e Neurofisiopatologia, A.O.U Università della Campania “Luigi Vanvitelli” di Napoli – dallo studio emerge come tra le malattie neurodegenerative sia riportata una maggiore mortalità per la malattia di Alzheimer mentre sia registrata una minore mortalità per la malattia di Parkinson. I risultati di questo studio si sommano a un filone di ricerca già portato avanti da diversi anni: fermo restando che l’esercizio fisico moderato, l’attività fisica, nonché la pratica sportiva a livelli più competitivi hanno importanti benefici per la salute, tra cui ridurre il declino cognitivo ed il rischio di manifestare demenza, alcuni sport di contatto che causano frequenti traumi o microtraumatismi ripetuti possono aumentare il rischio di compromissione cognitiva e neuropsichiatrica, ad esordio tardivo, dopo anni dall’attività agonistica, nonché il rischio di malattie neurodegenerative e di encefalopatia traumatica cronica (CTE). Particolarmente determinante – conclude il Prof. Tedeschi – è la durata dell’esposizione a traumatismi ripetuti, piuttosto che l’intensità di singoli, rari episodi traumatici. Questo ultimo dato è tranquillizzante per i calciatori amatoriali, poiché i soggetti a rischio sono solo i professionisti che per anni hanno subito dei micro traumatismi e quindi possiamo tutti continuare a giocare la “partitella” serale”.
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