Da una parte il paziente che non è in grado di riconoscere la malattia, dall’altra le strutture ricettive lontane o nascoste dagli altri reparti, negli ospedali: sono alcuni dei motivi che emarginano la persona che soffre di disturbo da abuso di alcol.
E la ricerca di nuovi farmaci soffre proprio di questo: in tale contesto è davvero molto difficile trovare finanziamenti.
Se ne è parlato questa mattina al Congresso nazionale della Società Italiana di Farmacologia, in corso a Firenze.
Firenze, 21 Novembre 2019
Mezzo milione di morti in dieci anni in Italia, tre milioni all’anno nel mondo, a causa dell’alcolismo, che oggi dovremmo chiamare – secondo la nuova edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) – «disturbo da uso di alcol». Già, anche perché forse suona meno colpevolizzante, dunque fonte di stigma. La dipendenza, invece, è una malattia vera e propria, causata da migliaia di fattori genetici e ambientali che si ripercuotono su complessi sistemi della nostra delicata neurologia.
Quindi non è con le prediche che il paziente dipendente smette di bere, ma soprattutto grazie alle terapie. Sino ad ora alcune scuole scindevano completamente la dipendenza dalla malattia, pensando che il paziente, sapendo di essere malato, si sentisse, in qualche modo scusato per il proprio comportamento. Ma le cose non stanno così, è “colpa” del circuito della ricompensa: la somma di diverse aree e fasci di neuroni che serve all’uomo per “registrare” cosa gli dia piacere e cosa invece no. Anticamente questo meccanismo neurobiologico ci era molto vantaggioso, per la ricerca di cibo calorico, per esempio, e si “accende” ancora adesso quando siamo sottoposti a stimoli piacevoli come quelli provocati dalle droghe, dal sesso, e anche dallo shopping, per fare un altro esempio.
«Di fatto – spiega Roberto Ciccocioppo, dell’Università di Camerino e membro SIF, al 39° Congresso nazionale della Società, in corso a Firenze – la ricerca di nuovi farmaci per la dipendenza da alcol è una di quelle aree che fatica di più a svilupparsi e le cause sono molteplici: da una parte il paziente non è in grado di riconoscere la malattia e quindi non chiede aiuto, dall’altra a tenere lontano il paziente è anche lo stigma nei suoi confronti, questo atteggiamento colpevolizzante che fa sì che ad oggi SerD e Dipartimenti per le dipendenze siano lontani, nascosti». Anzi: «Spesso sembrano luoghi fatiscenti, inoltre nello stesso luogo si curano anche dipendenze da eroina o stimolanti come la cocaina e quindi il paziente che abusa di alcol si sente in qualche modo estraneo, ancora più oggetto di stigma». La conclusione è che tutto ciò, con i riflettori fiochi sulla condizione della persona malata, «disincentiva la ricerca da parte delle aziende o comunque non le aiuta certamente a creare nuova attenzione».
In questo contesto sviluppare farmaci è complicato. «Sappiamo che allontanare il paziente dalla fase acuta dell’abuso è relativamente molto semplice, con farmaci sostitutivi che lo disintossicano e lo tengono “sobrio”, ma la vera sfida è evitare la ricaduta, a settimane, mesi o anni dalla prima disintossicazione». Può aiutare una terapia psicologica continuativa, ma i farmaci? Per incentivare la ricerca c’è bisogno di pensare al paziente come tale e non come una persona, simile a un delinquente, da emarginare, per mettere in moto un cambiamento nella società, prima, e in tutte le fasi della scienza medica poi.
All’orizzonte nuove soluzioni per le dipendenze – spiega ancora Ciccocioppo – come la terapia magnetica transcranica o TMS. Si tratta di una stimolazione elettromagnetica mirata a precise aree della corteccia cerebrale, in grado di aumentare la capacità di controllo e quindi decisionale dei pazienti. Sino ad ora questa tecnica è stata utilizzata con successo nei pazienti affetti da depressione, i quali, dopo la TMS, migliorano la propria risposta emotiva.
Il meccanismo della TMS si spiega in questo modo: la tecnica è in grado di riorganizzare la neurotrasmissione generalizzata dell’area frontale corticale (che nei pazienti con storia di abuso è ipofunzionanti) e di ripristinare i normali equilibri tra neurotrasmettitori, le molecole che regolano, tra le altre cose gli stati emotivi della persona. Il meccanismo, per alcuni versi, è simile a quello dell’elettroshock, ma molto più mirato, indolore e privo di effetti collaterali.
Altra recente e nuova strada per promuovere l’astinenza a lungo termine, per quanto riguarda le sostanze d’abuso è quella della vaccinazione. Consiste nel somministrare anticorpi anti-sostanza, che ne “annullano” l’effetto: il paziente non prova più piacere nel somministrarsi la sostanza tossica.
Quella del vaccino è tuttavia una strategia non ancora applicabile all’abuso di alcol, mentre ha dimostrato risultati nella dipendenza da nicotina e altre sostanze psicostimolanti come cocaina e metamfetamina. La terapia non è però efficace in tutti i pazienti, perché a causa delle caratteristiche individuali non tutti reagiamo allo stesso modo: paradossalmente anticorpi anti-sostanza d’abuso potrebbero infatti indurre a un aumento del desiderio. Se gli anticorpi infatti sono troppo bassi il paziente avverte sì una diminuzione del piacere associato alla sostanza, ma non completa. E se il piacere non è totalmente “sedato”, per via del numero insufficiente di anticorpi a legare tutte le molecole tossiche, il paziente è portato ad assumere più sostanza per aumentare il piacere.
Altro limite è che le sostanze d’abuso “non hanno limiti”: molti tossico-dipendenti infatti, una volta superata la dipendenza da una precisa sostanza (che non è più in grado di procurare piacere grazie agli anticorpi somministrati) possono provare il desiderio di cercare piacere in nuove molecole d’abuso, per le quali avremmo bisogno di ulteriori, nuovi, anticorpi. Ad esempio è frequente il passaggio dalle metamfetamine alla cocaina.
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