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Alzheimer, scarsi risultati e spese altissime: la ricerca rinuncerà? Il punto con gli esperti della Società Italiana di Farmacologia

Aumenta la popolazione anziana in tutto l’Occidente e con essa la frequenza delle malattie legate all’invecchiamento, tra cui le demenze e Alzheimer. La ricerca però arranca: diverse importanti aziende farmaceutiche hanno da poco annunciato di avere abbandonato gli studi, a causa dei risultati insoddisfacenti, a fronte di costi enormi.

Il punto con gli esperti della Società Italiana di Farmacologia al Congresso nazionale, in corso a Firenze.


Firenze, 21 Novembre 2019

Si stima che ci siano un milione e 271 mila persone affette da demenza in Italia. Fra queste il 60% circa ha una possibile o probabile diagnosi di Alzheimer e la previsione è infausta: entro il 2050 raddoppierà il numero delle persone colpite. L’ultimo rapporto mondiale (2015) parlava di 46,8 milioni di persone affette da una forma di demenza. Questa cifra, stando alle più recenti proiezioni, è destinata a raddoppiare nei prossimi 20 anni.

Eppure la ricerca scientifica contro la malattia di Alzheimer è a un punto fermo: colpa degli scarsi risultati delle nuove molecole a fronte di costi altissimi, tanto che diverse e importanti aziende farmaceutiche hanno annunciato di avere abbandonato l’obiettivo di trovare una cura o un farmaco che cronicizzi o migliori la malattia. Lo conferma Alessandro Mugelli, Presidente della Società Italiana di Farmacologia (SIF), mentre è in corso, a Firenze, il Congresso nazionale della Società: «È di pochi giorni fa l’annuncio della decisione di sospendere due studi di Fase III con un inibitore della sintesi della beta-amiloide in pazienti con malattia di Alzheimer in fase iniziale e questa notizia segue quelle di altri fallimenti e della decisione da parte di importanti aziende farmaceutiche di rinunciare alla ricerca sull’Alzheimer».

Se la premessa è questa, la scienza cerca comunque di ripartire e nuove strategie sono all’orizzonte: nel conto di Mugelli ci sono alcune centinaia di studi clinici. «È molto probabile che la nuova strategia sarà ancora quella di puntare ad anticorpi anti beta-amiloide, la molecola che, accumulandosi nei neuroni, li porta alla morte scatenando la malattia – segnala il Prof. Stefano Govoni dell’Università di Pavia – ma si tratterebbe di anticorpi molto particolari». Già, perché non è la prima volta che si percorre questa via, e tuttavia i risultati non sono stati soddisfacenti: «Parliamo, invece, questa volta, di un anticorpo contro le forme oligomeriche di beta-amiloide, vale a dire quelle più patogene – sottolinea Govoni: contrastando queste, è possibile che ritarderemo la comparsa dei sintomi e l’insorgenza della malattia».  

Il problema non è solo la strategia, dalla quale i ricercatori si aspettano un miglioramento, ma il numero di farmaci in studio che, sebbene a centinaia, non sono sufficienti. «Attualmente – continua Govoniabbiamo solo 142 molecole in sviluppo, per tutte le fasi della sperimentazione, da quella preclinica (sull’animale) a quella clinica (sull’uomo): sappiamo quante molecole si rivelano inefficaci nella lunga strada dalla preclinica alla clinica, cioè dall’idea allo sviluppo, sino all’utilizzo vero e proprio sul paziente». E fa un paragone: «Pensiamo che le molecole attualmente in sperimentazione il cancro sono oltre 3000. Molte di queste saranno abbandonate, ma cominciamo comunque da un numero di partenza molto più alto di 142».

Esiste poi un altro problema: il numero dei malati di cancro, per fare un esempio, è più alto, rispetto ai malati di Alzheimer, circa tre volte tanto. Quindi il settore dedicato alla malattia di Alzheimer è un settore che riceve meno finanziamenti, sia perché ha meno successi, ma anche perché esiste una percezione diversa del pericolo.

[Cfr. molecole attualmente in sviluppo per Alzheimer: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6617248/]

«L’opinione pubblica – prosegue il Professore – avverte più forte la minaccia di altre malattie, come nel caso del cancro, e non dimentichiamo che mentre il cancro, generalmente può colpire a ogni età, la maggior parte dei pazienti colpiti da Alzheimer è anziana: parliamo quindi di una popolazione alla quale, in un certo qual modo, si “giustifica” con più facilità l’essere malati».

Novità nel campo della prevenzione: potrà sembrare una sembrare banale, ma dieta e attività fisica sono le strategie con le più alte evidenze di benefici. Perché? Sappiamo che alla base delle demenze c’è sempre anche una componente cardiovascolare, quindi la buona salute del cuore in generale è fattore positivo e preventivo contro Alzheimer e altre demenze. Attenzione alla stimolazione cognitiva, vale a dire tenere la mente allenata: «È un dato – conclude Govoniche la malattia è più frequente in lavoratori manuali, piuttosto che in lavoratori che sono costretti a “utilizzare” per tutta la vita strategie più “cerebrali”: il rischio è dunque maggiore in chi possiede minore scolarità. Ma non è detto che chi sia meno scolarizzato debba “utilizzare” meno il cervello, dato che ognuno di noi può coltivare letture, esercizi per la mente e anche attività manuali in cui le facoltà cognitive siano particolarmente richieste».

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