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Generazione Z: l’azione dell’ASP Ragusa per i giovani e le loro famiglie

Irascibili e violenti con gli altri e anche verso se stessi. Ma anche tristi e depressi. Sono i giovani della Generazione “Z”, quelli che hanno tra i 15 e i 25 anni. 
L’ASP di Ragusa pronta a lanciare il progetto “Immersione Z”. Un programma finalizzato, attraverso l’intervista motivazionale, ad apprendere dalla voce degli stessi ragazzi cosa stanno provando, quali sono le loro più impellenti emergenze, cosa vogliono fare della loro vita.

Ragusa, 9 agosto 2022

L’ASP di Ragusa pronta a lanciare il progetto “Immersione Z”, in collaborazione con l’Ufficio scolastico provinciale, associazioni, club service, enti, gruppi. Un programma finalizzato a realizzare, utilizzando un’azione di avvicinamento e di conoscenza della “Generazione Z”, attraverso l’intervista motivazionale – alla base dell’intervento/azione del progetto – che è già in atto. Un coinvolgimento diretto di quelli che un tempo si definivano “pr”, ovvero public relation, e che oggi si chiamano semplicemente organizzatori di spettacoli giovanili. Si tratta di giovani e giovanissimi che conoscono bene i loro pari, coordinano il loro divertimento, sono dentro il mondo della movida, ne hanno appreso esigenze, tic, problemi ed emergenze. Incontrarli, parlare con loro e intervistarli significherà acquisire informazioni preziose, dirette ed esclusive sulla “Generazione Z”. In autunno, quindi, il materiale raccolto, attraverso le interviste, sarà elaborato e verrà utilizzato per il progetto accordo, un altro tassello per rilanciare l’ambulatorio anti-bullismi dell’Azienda Sanitaria

Un accurato studio che il pedagogista Giuseppe Raffa – responsabile dell’ambulatorio antibullismo dell’ASP – ha realizzato durante la sua esperienza professionale sul campo dei giovani. 

Giuseppe Raffa

«Irascibili e violenti con gli altri e anche verso se stessi. Ma anche tristi e depressi, come ha di recente ricordato l’Unicef. Sono i giovani della Generazione “Z”, quelli che hanno tra i 15 e i 25 anni. Ragazzi e ragazze dai comportamenti, le abitudini, e i modi di fare che il virus avrebbe stravolto nel breve volgere di due, tre anni. Per molti è tutta colpa del Covid. Lo pensa una parte degli adulti cosiddetti competenti, che addebitano tutto questo alle restrizioni sanitarie, alla prolungata chiusura delle scuole, alla Dad – Didattica a distanza – e al lockdown del 2020. E, a sentire gli esperti, sono poi i bambini piccoli e quelli delle elementari ad aver subito i danni maggiori: un grave, rude e forse irreversibile arresto dei processi di esplorazione personale, corporea e relazionale. Tanta roba, insomma, che con ogni probabilità non è tutta colpa della pandemia. E’ vero che il virus ha generato il diffondersi tra i giovani – e anche tra gli adulti – di nuovi e variegati disturbi psicologici. È anche vero, però, che i prodromi del nuovo, epocale disagio giovanile si sono manifestati nel periodo precedente la diffusione del Coronavirus. Ad ogni modo, chi intende comprendere meglio quello che sta accadendo tra i ragazzi deve partire dall’avvento di Internet, prendere in considerazione la cosiddetta rivoluzione tecnologica. Cioè la rete a portata di tutti, lo smartphone che diventa il prolungamento del corpo umano, la pervasività dei social, ma soprattutto la nascita dei “nativi digitali”, come li ha definiti Prensky nel 2002. Ossia i ragazzi di oggi, diversissimi, altra cosa rispetto ai coetanei precedenti per comportamenti, modi di pensare, abitudini e disagi. Che gli “immigrati digitali”, cioè gli adulti di riferimento, non conoscono, non riescono a capire e perciò hanno gradualmente abbandonato. Milioni di cuccioli d’uomo soli, in balia dei marosi della vita, nei confronti dei quali i vecchi canoni pedagogici sono risultati inutili, obsoleti e a volte pure dannosi. Da qui la scelta improvvida e devastante di molti adulti di lasciare soli i figli oppure di affiancarli simmetricamente vestendosi come loro, nutrendosi della stessa cultura e modi di fare. Sono le mamme e i papà “amiconi”, per essere più precisi. Ed è stato a quel punto, siamo nella prima decade dei Duemila, che gli esperti hanno cominciato a registrare l’inesorabile avanzare del pericoloso atteggiamento di rinuncia, di “gran rifiuto” degli adulti nei confronti della educazione dei figli, dei nipoti, degli alunni. Abbandono educativo, ecco di che si tratta: un fenomeno epocale, trasversale, che, unito all’onda d’urto del Covid, ha “contagiato” e devastato milioni di genitori alle prese con la educazione, anzi con la non educazione dei ragazzi digitali. In pochi anni, dalla verticalità si è passati alla orizzontalità “fraterna”, dove si è tutti farloccamente uguali, giovani e adulti. Nelle famiglie è scomparso il conflitto generazionale, l’aggressività giovanile, prima concentrata sul padre, si è gradualmente trasferita nelle strade, a scuola nei locali. Ben presto la nuova società orizzontale e “liquida”, a sentire Bauman, ha cancellato limiti e confini, con la conseguenza che la famiglia non è più riuscita ad essere luogo preferenziale per la risoluzione dei conflitti. Risultato, la solitudine dei giovani ha determinato il moltiplicarsi già prima della pandemia degli atteggiamenti alloplastici, cioè di violenza verso coetanei, adulti e cose, e il diffondersi degli atteggiamenti autoplastici, cioè di danno verso se stessi e di attacco al corpo. Ecco spiegato l’aumento esponenziale dei disturbi alimentari già prima del Covid, che in Italia colpiscono in media 3 milioni e mezzo di persone, di cui il 70% è rappresentato da adolescenti e preadolescenti. Con la pandemia da Covid 19 tali disturbi hanno mostrato un importante aumento di incidenza e mortalità. I nostri ragazzi soffrono come mai avvenuto nei tempi moderni. Colpa della pandemia, certo. Ma anche dell’assenza delle famiglie, della politica, degli adulti di riferimento. Insomma, bisogna intervenire. La nostra ASP lo può fare, lo deve fare. Cominciando con l’apprendere dalla voce degli stessi ragazzi cosa stanno provando, quali sono le loro più impellenti emergenze, cosa vogliono fare della loro vita, perché pensano poco al loro futuro, come mai preferiscono impaludarsi nel presente infinito di cui parla il sociologo Bordoni.»

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